Non sono qui in discussione né l’argomento in sé dello spunto di questa riflessione né, tanto meno, la libertà di pensare, dire e scrivere, che è sacrosanta. Non è questo il punto.
Il punto è l’anomalia dell’archeologia in Italia, che non ha la dignità di professione costringendo gli archeologi a non esistere.
Chiunque si autonomini “esperto” di archeologia, pur facendo un altro mestiere,
e proponga affascinanti teorie su temi di largo interesse trova ampio spazio di divulgazione e si sente autorizzato a delegittimare la ricerca archeologica e chi la fa per mestiere: “si è formato un quadro assai diverso da quello che fino ai giorni nostri certo establishment culturale – vuoi per ignoranza o per salvaguardia di potere – aveva disegnato e fissato sui libri di scuola".
A differenza di qualunque altro ramo della ricerca, le teorie di chiunque valgono quanto, se non di più, di quelle degli archeologi, che non sanno o se sanno nascondono. Perché poi dovrebbero resta inspiegabile.
Non importa se “l’inedito modo di ricercare” non è affatto inedito, come saprebbe chi avesse anche solo una minima idea di che cosa è la ricerca archeologica.
Non importa se l’avvincente teoria è ancora senza riscontri, se “di tutto questo sarebbe ora importante trovare le prove scientifiche”.
L’archeologia è una cosa seria, è una scienza con metodi e strumenti propri e che, ho già scritto altrove, non si improvvisa ma si fonda su un percorso formativo e lavorativo proprio che consente di imparare prima e di maneggiare poi quei metodi e quegli strumenti con la dovuta e necessaria sapienza.
Metodi e strumenti condivisi, che si migliorano e si affinano costantemente e che si possono persino rivoluzionare, come già avvenuto in passato ad esempio con l’introduzione dello scavo stratigrafico, provando senza equivoci la validità dell’alternativa, la capacità di rispondere alla domande storiografiche e la consistenza storica dei risultati che si ottengono.
Metodi e strumenti condivisi che sono il denominatore comune di quelle che possono, legittimamente, essere interpretazioni diverse.
Se è questo il “potere” di cui sarebbero investiti gli archeologi, il potere del metodo, allora sì, siamo tutti impegnati a difenderlo.
Questo non può e non deve essere aggirato, se il fine è la Storia, seria, il più possibile fondata e che, consapevole dei limiti imposti dall’irrimediabile parzialità dei dati, mira ad avvicinarsi sempre più alla verità.
Perché è questo, e non altro, che dà dignità e autorevolezza ad una ricerca e a chi la fa.Il "chiunque" potrebbe essere persino una risorsa, proporre un punto di vista diverso e, perché no?, fecondo, ma troppo spesso appare poco serio nel suo ergersi a rivelatore di verità assolute e troppo spesso ridicolizza la ricerca archeologica, gli archeologi e la Storia stessa.
La Storia non è una favola che è lecito interpretare a piacere.
Mi de-lurko per fare i complimenti per questo blog splendido che seguo da qualche tempo "in silenzio". Mi sto laureando in Discipline artistiche e archeologiche (classe di Archeologia) e inizio anche io a scontrarmi con questo mondo di sottovalutazione e approssimazione della scienza che studio. C'è una qualche consolazione nel leggere che qualcun altro prova lo stesso sentimento di fastidio. :)
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