giovedì 14 luglio 2011

Archeologa che (r)esiste

Sono un’archeologa che (r)esiste da 11 anni.
Molte soddisfazioni, lo riconosco, grazie all’eccezionale contesto umano e professionale nel quale mi sono trovata a lavorare. Altrettante frustrazioni.
Ho avuto qualche volta l’illusione di poter vivere del mio lavoro.
E non mi riferisco solo all’aspetto economico della faccenda, che per altro non deve essere minimizzato (le mie riserve sono finite da un pezzo...).
Mi riferisco soprattutto al tentativo di determinarmi un’identità nella collettività, conquistarmi un posto nel mondo anche per la mia professione e non nonostante la mia professione.
Il contrasto tra la soddisfazione di un lavoro appagante e la frustrazione della sua (e della mia) invisibilità si è fatto nel tempo sempre più lacerante.
Mi ripeto spesso che forse è arrivato il momento di smetterla di giocare con la terra e fare invece sul serio, trovare un lavoro vero.
Rimando, impreparata a ripensare il mio progetto di vita, nel quale ho sempre considerato, senza indecisioni, l’archeologia come un lavoro vero e mi sono battuta perché come tale si percepisse anche dal di fuori.
Sono sempre riuscita a trovare una buona scusa per non decidermi a mollare tutto, ora so che ho già deciso.
È partito un moto che sarà inarrestabile se non verrà meno il coraggio di (r)esistere.
Voglio esserci quando scenderemo in piazza per festeggiare e non per rivendicare.

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