lunedì 31 gennaio 2011

I beni culturali in Parlamento. Idee a confronto

Andando oltre la strumentalizzazione politica, la discussione delle mozioni di sfiducia al Ministro per i Beni e le Attività Culturali ha avuto il merito di portare in Parlamento la “questione beni culturali”.

L’attuale indirizzo politico in materia è stato delineato a partire dal “ruolo che la cultura può avere per lo sviluppo economico e non soltanto civile e democratico” e dalla necessità di “riformare il Ministero”.
Riformare il Ministero, in particolare in uno degli aspetti più delicati, e più rilevanti, del suo compito istituzionale: quello di verificare la compatibilità delle “opere pubbliche” –che in questa visione si identificano con lo “sviluppo economico del Paese”- con le esigenze di tutela del patrimonio storico, artistico, archeologico e paesaggistico. Compito a causa del quale “è divenuto con il tempo il Ministero del no allo sviluppo economico del Paese, il Ministero degli ostacoli allo sviluppo economico del Paese, senza con questo, peraltro, riuscire effettivamente a tutelare i beni culturali ed il paesaggio”.


Che l’azione di tutela del patrimonio culturale, che non è un capriccio dei soprintendenti ma che il Ministero compie in base alla legge attualmente vigente (legge che, pare opportuno ricordarlo, protegge tutti i beni culturali e non solo quelli di maggiore rilevanza) e al mandato esplicitato dall’articolo 9 della Costituzione, costituisca un ostacolo allo sviluppo economico del paese è di per se stessa affermazione di un certo peso e di una certa gravità.
Le une e le altre esigenze, in questa visione, sono perennemente in contrapposizione.
Così come è di un qualche peso e gravità ritenere il Ministero incapace di tutelare il patrimonio, senza indagarne e spiegarne le ragioni con qualche onestà.

L’idea di riforma proposta perché lo sviluppo economico non resti imbrigliato nelle maglie della tutela del patrimonio appare oziosa.
Si vorrebbe un “Ministero che contribuisca ad individuare delle soluzioni soprattutto attraverso la collaborazione con gli enti locali, i comuni, le regioni ed i privati. Soluzioni che sono dei punti di equilibrio fra le ragioni, da una parte, della tutela del patrimonio e, dall’altra, le ragioni, altrettanto importanti, dello sviluppo economico”.
È già così, ciò che si va cercando il Ministero lo fa già nella quotidiana realtà dei suoi uffici periferici. O almeno ci prova, così come prova ad adempiere al meglio il proprio compito di tutela, dribblando, per quanto possibile, le molteplici difficoltà derivanti dalla carenza di denaro e di personale e dalla soverchia burocrazia.

Ugualmente carica di conseguenze è l’idea che la soluzione dell’impasse che viene a crearsi tra le esigenze della tutela e quelle dello sviluppo economico sia nominare commissari “con l’obiettivo di semplificare ed abbreviare almeno i tempi per le autorizzazioni”, per liberare i progetti delle opere pubbliche dalla gogna della tutela del patrimonio.
Una soluzione ex post che rischia di vedere sempre, o quasi sempre, le esigenze della tutela piegate a quelle dello sviluppo, il patrimonio storico, archeologico e paesaggistico perdere contro le grandi opere, la legge di tutela aggirata in nome dello sviluppo.
Non si potrebbe, più semplicemente, applicare la legge?
Quella legge, ad esempio, che impone alle regioni, in collaborazione col Ministero, di redigere i piani paesaggistici, strumenti pensati proprio per programmare e promuovere lo sviluppo del territorio tutelando, al contempo, il relativo patrimonio materiale e immateriale.
Quella legge, ad esempio, che impone la “verifica preventiva dell’interesse archeologico” nell’ambito dei progetti preliminari delle opere pubbliche, proprio al fine di arrivare al progetto definitivo ed esecutivo con già in tasca la soluzione, il punto di equilibrio tra “le ragioni da una parte della tutela del patrimonio e dall’altra le ragioni, altrettanto importanti, dello sviluppo economico”.
Non sarebbe più semplice applicare la legge (quante regioni hanno effettivamente predisposto i piani paesaggistici?), magari anche aggiustarla e migliorarla, piuttosto che perseverare nell’accreditare lo scellerato preconcetto che il patrimonio culturale blocchi lo sviluppo? Preconcetto che, per altro, appare sempre meno vivo tra la gente, che comincia a domandarsi se lo sviluppo economico passa davvero esclusivamente attraverso la cementificazione.
Forse non sarebbe superfluo ripensare l’approccio, ripensare l’idea di città e di territorio alla luce di quello “sviluppo sostenibile” del quale si fa tanto parlare ma che, nei fatti, è stritolato dalla logica del consumo e della speculazione. Uno sviluppo al quale possano contribuire anche i beni culturali.

Non sarebbe più semplice, e più produttivo in una prospettiva a lungo termine (ché una prospettiva a lungo termine è indispensabile), assicurare agli uffici preposti gli strumenti –semplificazione burocratica, denaro, personale- necessari a svolgere il compito in modo adeguato, anziché perseverare nella logica dell’emergenza e dei commissariamenti?
Il Ministro rivendica allo Stato le prerogative in materia di tutela, ma descrive un presente (con gli esempi della metropolitana di Napoli e di Roma) e prospetta un futuro in cui tali prerogative devono, quasi senza se e senza ma, piegarsi allo “sviluppo economico”, anziché contribuirvi.
Il Ministro rivendica allo Stato le prerogative in materia di tutela ma non propone né iniziative né, tanto meno, una strategia adeguata a rendere fattive tali prerogative.
Nonostante in altra occasione parlamentare il Ministro abbia posto il problema della carenza del personale tecnico che va ad incidere, e non poco, sull’attività di tutela (“dovremmo assumere almeno, e dico almeno, 50 architetti e 80 archeologi per far fronte all’emergenza”), in questa circostanza non una parola è stata spesa a chiarire se e quando si intenda far fronte ad un’emergenza che si avvia ad essere irrimediabile. Non una parola è stata spesa su una questione non certo secondaria e sulla quale si è pronunciato, con preoccupazione, anche il Consiglio Superiore per i Beni Culturali e il Paesaggio.
Per la verità un piano, straordinario, di interventi con al centro la tutela e l’assunzione di personale è stato proposto (con un emendamento al decreto mille proroghe)...ma solo per Pompei.
Ben venga, non sarò certo io a dire che non serve. E il resto del patrimonio?
Prevale la logica del presunto ritorno economico, tanto meglio se è uno dei siti archeologici più straordinari del mondo, la cui fragilità ha fatto da poco il giro del mondo e dove urge rimediare al danno d’immagine causato dalle mancanze, dello Stato, alla sua manutenzione che hanno fatto lo stesso giro del mondo.
Si procede in modo sostanzialmente miope, ci si rifà il trucco senza lavarsi la faccia...

Possiamo sempre sperare che sia solo l’inizio...e che al piano straordinario per Pompei segua un piano per il patrimonio culturale italiano.
Magari accogliendo le critiche e le proposte delle opposizioni, che hanno dato voce agli appelli degli addetti ai lavori a porre rimedio alla carenza di personale del Ministero, anche con un emendamento al decreto mille proroghe che consentirebbe di derogare al blocco delle assunzioni e far scorrere le graduatorie dell’ultimo concorso espletato.
“La macchina del Ministero si è inceppata appesantita dalla riduzione del personale, dal blocco delle assunzioni”, esito di quella politica di tagli, da tempo applicata alla pubblica amministrazione in modo indiscriminato, che ha prodotto un “ridimensionamento del Ministero lasciando drammaticamente scoperti settori tecnici indispensabili tra cui in particolare quelli degli architetti e degli archeologi” e la progressiva perdita di quella “professionalità straordinaria” degli storici dell’arte, degli archeologi e degli architetti “di cui il nostro paese andava fiero e che oggi rischia di estinguersi” (Giovanna Melandri).
“Riteniamo che con uno sforzo (..)  proprio in questa fase del decreto mille proroghe si potrebbe provare per quanto riguarda il personale, a far scorrere le graduatorie dei concorsi e in questo senso attraverso un emendamento abbiamo fornito tale indicazione” e ancora “ Non esistono più funzionari pubblici tra i venti e i quarant’anni (...) i concorsi espletati da anni sono bloccati” (Fabio Granata).
“Non sono state sbloccate le assunzioni, in particolare per sovrintendenti, architetti e archeologi” (Renzo Lusetti).
“Si prevede che nei prossimi anni il Ministero perderà 5500 dipendenti su 23000, mentre già oggi la carenza degli organici è tale che molti soprintendenti devono farsi carico non di una soprintendenza ma di due, qualche volta anche di tre. Abbiamo chiesto che fossero assunti giovani validi e bravi che hanno già superato le prove di concorso” (Rocco Buttiglione).
Aggiungerei che non sarebbe superflua nemmeno una regolamentazione seria delle professioni culturali, primi fra tutti gli archeologi che non esistono al di fuori delle strutture ministeriali nonostante la loro indiscutibile necessità e il loro costante supporto all’azione di tutela.
Non sarebbe questa una efficace collaborazione dello Stato con i privati?
Non sarebbe questa una vera riforma?

Debole, nell’attuale indirizzo politico del Ministero, anche l’approccio al problema delle risorse economiche, che ha eluso la questione dei tagli ai finanziamenti e declinato la responsabilità dello “scandalo” di un paese che per i beni culturali “spende poco e meno degli altri Paesi europei”. Certo, non è responsabilità del Ministro in carica se l’investimento pubblico nei beni culturali è, da sempre, ben poca cosa.
Responsabilità del Ministro in carica è limitarsi a prenderne atto, non impegnarsi a fare diversamente, usare il passato come alibi. Il che equivale a condividerne la sostanza.

Il problema delle risorse, ha detto il Ministro, esiste anche perché “spendiamo male, eroghiamo finanziamenti a pioggia, non finalizziamo i contributi in progetti qualificanti come fanno gli altri Paesi e addirittura non siamo in grado di spendere le risorse che abbiamo”. Risorse che potrebbero essere spese e spese meglio se “musei e aree archeologiche fossero amministrati da personale efficiente, capace di dirigere i musei e le aree archeologiche”. Cioè da managers che, “fermo restando il ruolo di tutela dei soprintendenti”, si occupino della valorizzazione e della gestione.

Spendiamo male? Credo che sia vero. Come non condividere, per fare un esempio, le perplessità sulla società ARCUS S.p.A.? Società che “costa qualche milione l’anno di indennità peri consiglieri d’amministrazione e per i dipendenti che non si capisce bene che cosa facciano” e “ha distribuito a pioggia qualcosa come 250 milioni di euro” (Antonio Borghesi).
Denaro che gioverebbe spendere prima per la tutela ordinaria del patrimonio, poi per altri progetti di interesse e valore culturale. Non sembra così irragionevole, soprattutto se occorre spendere meglio: 250 milioni di euro sono, più o meno, la cifra degli attuali tagli al Ministero.
Non sembra così irragionevole: se la tutela è e resta prerogativa dello Stato, come lo stesso Ministro ha ripetutamente affermato, è e resta responsabilità dello Stato anche il suo finanziamento.

È questione di scelte, di scelte politiche.

La voce delle opposizioni ha fissato i principi in base ai quali si possono scegliere i beni culturali quale progetto qualificante per l’Italia.
La cultura ha un “ruolo costituzionale fissato dall’articolo 9 di ben più alto livello, di più alto spessore” rispetto alla “suggestione che la cultura serva a produrre reddito, a produrre turismo, a creare un’industria”, la funzione di “ricordarci chi siamo, qual è il fondamento dell’identità nazionale”, e non “un lusso che si può tagliare o, con un’altra stortura, esclusivamente una fonte di guadagno”: l’idea che la cultura “deve fuoriuscire dalla sacca di peso rispetto al bilancio dello Stato e diventare produttiva è un’affermazione assolutamente fuori dalla realtà per un patrimonio culturale come quello italiano che solo per essere tutelato e salvaguardato attraverso opere di ordinaria manutenzione, oltre che di restauro e quindi successivamente di valorizzazione, ha bisogno di risorse enormi. Lo Stato e il Governo devono avere il coraggio di dire e di ammettere che in cultura bisogna investire e che spesso l’investimento in cultura, da un punto di vista produttivo, è inizialmente a fondo perduto, perchè serve a qualcosa di più importante”(Fabio Granata).
I beni culturali sono “una prospettiva strategica e una delle poche risorse non delocalizzabili del nostro paese”(Giovanna Melandri) e un“fattore fondamentale di sviluppo” anche “come occasione per nuova occupazione” (Michele Ventura).

Proprio in virtù della loro funzione, preservare la memoria della comunità nazionale e promuovere lo sviluppo della cultura (arti. 1 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio), proprio in virtù di quella memoria che custodiscono e trasmettono, i beni culturali sono una risorsa, un valore aggiunto. A condizione di preservarli dal degrado, conoscerli, condividerne la conoscenza e a condizione di non perderne il senso profondo.
E possono produrre. In quanto volano per il turismo, certo. Ma soprattutto in quanto lavoro: preservare i beni culturali dal degrado, conoscerli, condividerne la conoscenza e mantenerne il senso profondo sono un lavoro e non solo un "dovere", una "responsabilità" o, al contrario, un "lusso", uno "spreco di denaro pubblico". Un lavoro.
La disoccupazione non è una delle grandi preoccupazioni del nostro tempo?

Ma le scelte vanno in altra direzione, l’unica strada che sembra percorribile è quella concentrare le risorse laddove si ritiene lecito aspettarsi un ritorno economico, e non a tutto il patrimonio come dicono Costituzione e legge. Di rovesciare le priorità nel rapporto tra tutela e valorizzazione e fraintendere la valorizzazione, cioè la promozione della conoscenza del patrimonio culturale (art. 6 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio) in commercializzazione.
Per generare l’ambito meccanismo che renderebbe produttivi i beni culturali, diventa prioritaria la valorizzazione al fine di alleggerire, o sostituire?, l’impegno economico dello Stato, attraverso forme di gestione manageriale e partecipate da istituzioni territoriali e privati e strategie di marketing aziendale.
Il modello, così come è stato concepito con la valorizzazione quale prima necessità al fine di fare cassa, non funziona. “Si ha un’idea falsa della possibilità di generare un meccanismo di autosufficienza economica, quindi gestionale e quindi legata alla valorizzazione del settore”(Fabio Granata). Anche qualora il guadagno ci fosse, come potrebbe essere sufficiente?
Il modello non funziona “proprio in una corretta ottica manageriale”, che presuppone “il mantenimento in vita e in pristino di ciò che si vuole vitale per la valorizzazione”; non funziona “l’idea che la valorizzazione trovi le risorse e poi con essa si porrà mano alla tutela, alla manutenzione ordinaria e straordinaria” perché “nel frattempo poco sarà rimasto e male da tutelare” (Eugenio Mazzarella). Ah la manutenzione ordinaria...che non è un altro capriccio dei soprintendenti, ma un complesso di misure di salvaguardia e conservazione mirate a prevenire la necessità di grandi e sempre costosi e sempre invasivi (per i beni culturali) restauri e a dare continuità, e slancio, alla valorizzazione. Un complesso di misure ordinarie che necessitano di finanziamenti ordinari mirate ad evitare interventi straordinari che necessitano di investimenti straordinari. Un risparmio e non uno spreco.
Servono i managers per spendere meglio o serve piuttosto una programmazione, una strategia?
Non funziona “l’idea che la cultura della managerialità, privati e fondazioni fossero le parole che avrebbero tratto d’impaccio dall’incapacità di trovare nel bilancio dello Stato risorse adeguate, corredandole a politiche efficaci” (Eugenio Mazzarella).

Servono i managers per dirigere musei e aree archeologiche? Non so, io credo che tutela e valorizzazione non possano in alcun modo essere disgiunte, a meno di non svuotare il contenuto della valorizzazione, cioè la conoscenza del patrimonio. Credo che musei e aree archeologiche abbiano bisogno prima di tutto di archeologi, architetti e storici dell’arte che tutelino, conoscano e condividano la conoscenza. Come nei grandi musei del mondo, come, ad esempio, al Louvre.
Poi, perché no?, il manager, se per manager si intende una figura professionale che sappia supportare archeologi, architetti e storici dell’arte in quel passo, talora difficile, tra la conoscenza storica, archeologica, artistica, paesaggistica e la sua corretta presentazione al grande pubblico.
Che è questa è la valorizzazione del patrimonio culturale.

Serve il contributo di comuni, province, regioni e privati? Sì che serve, anzi è auspicabile e in parte già regolamentato, ma non è credibile che possa sostituire l’impegno dello Stato.  
E anche qualora fosse questo, in prospettiva, possibile, nel frattempo che si riscrivono le regole del gioco non può venire meno l’impegno dello Stato: “anche qualora si condivida questo modello, è chiaro che la sua implementazione richiede tempo ed una legislazione appropriata che incentivi l’investimento privato. Se non si fa questo e si chiude l’investimento pubblico il risultato è uno solo: la distruzione del patrimonio culturale e la morte della cultura” (Rocco Buttiglione).
Ben vengano iniziative come quelle di Diego Della Valle per il restauro del Colosseo, e, sì, ci vorrebbe “una strategia nazionale di quelle risorse pubbliche a cui si possono associare risorse private in luoghi e per la valorizzazione di beni culturali e archeologici forse meno noti al grande pubblico ma altrettanto bisognosi di interventi” (Giovanna Melandri).
Una “strategia nazionale” che dovrebbe essere un’operazione culturale di ampio respiro, ove lo Stato sia esempio e latore delle ragioni culturali che possono convincere il privato a partecipare.

Così, mentre lo Stato oggi non può (o non vuole?) permettersi il lusso (?) di conoscere, tutelare, conservare e valorizzare i beni culturali in quanto l’insieme di tali attività costituisce un investimento improduttivo e appare impantanato nella ricerca della formula magica che risolve tutto, il Ministero non è più in grado di attuare l’articolo 9 della Costituzione (Andrea Carandini, Presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali e del Paesaggio http://www.patrimoniosos.it/rsol.php?op=getarticle&id=77732).

Coloro che invece, finalmente, hanno mostrato un qualche interesse serio accogliendo le istanze del mondo dei beni culturali e dando loro voce in Parlamento, non facciano passi indietro.
I beni culturali hanno urgente bisogno di una politica nuova e di interventi immediati, per altro già individuati, per evitarne l’imminente tracollo.
Io, noi tutti che ai beni culturali abbiamo scelto di dedicarci, abbiamo bisogno di sapere che le parole pronunciate in Parlamento, che non è una sede qualunque, non sono solo parole ma idee concrete da realizzare. Al più presto.


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